Eva

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La giurisprudenza in più di un’occasione ha rilevato come la forma distintiva di un prodotto possa andare soggetta allo stesso fenomeno di volgarizzazione dei marchi verbali.
Nella casistica entro cui si manifesta di solito il fenomeno della volgarizzazione di un marchio o della forma di un prodotto ricorrono per lo più due fattori: il fatto che quel marchio o quella forma hanno caratterizzato un bene dotato di particolare forza innovativa quando si è affacciò per la prima volta sul mercato e il fatto che a questa originalità è seguita una così capillare diffusione di questo bene sul mercato da diventare inevitabile usare questa parola e questa forma per identificare o descrivere una categoria generica di beni.

Può sembrare in un certo senso paradossale che l’estremo successo di un marchio o della forma di un prodotto sul mercato ne decretino il rischio di decadenza sotto il profilo legale. Non va tuttavia dimenticato che – come stabilisce l’art. 14 del CPI, comma 4 – nel nostro ordinamento rileva a questo riguardo anche il comportamento del titolare dei diritti, il quale con la sua attività o – più presumibilmente – inattività consenta al processo di volgarizzazione di evolversi e completarsi. Al titolare dei diritti – in certi casi – può tuttavia capitare di intervenire quando il processo di volgarizzazione è in uno “stadio” troppo avanzato, o tale viene ritenuto dalle corti chiamate a valutare il caso. Talvolta invece il processo di volgarizzazione può risultare troppo rapido o dirompente, perchè lo si possa contrastare.(…)

E’ indubbio che marchi nati dunque per identificare qualcosa che non esisteva sul mercato prima della loro comparsa richiedono un comportamento ancora più accorto da parte dei loro titolari, al fine di scongiurarne il rischio di volgarizzazione. Molti non ricordano, per fare alcuni esempi significativi, come biro, scotch, jeep, aspirina, bikini o cellophane siano stati originariamente dei marchi. Eppure tutti questi marchi, ciascuno per sue specifiche ragioni, sono passati via via ad identificare un genere di beni e non la loro prima fonte produttiva. A questo ha indubbiamente contribuito il fatto che – prima di loro – non esistesse quel genere di bene. Ciò peraltro sembrerebbe essere avvenuto a prescindere da quanto i loro titolari si siano attivati al fine di contrastare l’uso di questi marchi da parte di terzi o di segnalare l’esistenza di loro diritti esclusivi su questi segni, secondo quanto indirettamente suggerito dall’art. 14, comma 4 CPI.

Sulla scorta di questo ragionamento, viene da domandarsi fino a che punto il comportamento del titolare dei diritti, come vuole il nostro CPI, possa influire su fenomeni di volgarizzazione di marchi verbali (o anche di forme distintive), i quali – pur essendo del tutto originali e di fantasia – abbiano rivoluzionato la prospettiva dei consumatori verso il bene o servizio da questi identificato. Fa riflettere – ad esempio – il fatto che i teenager (e non solo) abbiano coniato il verbo “googlare” o, nei paesi di lingua inglese, “to google” per descrivere l’attività di ricerca via web (la quale, per ora, è almeno ancora riferita pressoché esclusivamente al servizio offerto dal titolare del relativo marchio).

Allo stesso modo, ci è recentemente capitato di incappare in una clausola di un contratto di licenza, pur predisposta da soggetti professionali operanti nel settore media, dove “iphone” veniva affiancato a categorie generiche di beni, quali cellulari, telefoni fissi e smartphone. Questa curiosa elencazione, se da un lato dimostra che l’iphone è percepito come un qualcosa di assolutamente “diverso” da quanto già si trova sul mercato, come una categoria a sè, dall’altro lato rappresenta una sfida per chi lo ha sviluppato e prodotto nel fare sì che non si trasformi col tempo in un genus, per questo più facilmente vulnerabile sotto il profilo delle esclusive di proprietà intellettuale, sia come marchio verbale, sia come forma distintiva.